Esselunga: che splendido esempio!

Esselunga, bilancio 2016: ricavi + 3,1 % (superati i 7,5 miliardi) nonostante un calo medio dei prezzi dell’ 1,1 %. Clienti + 4,4 %. Margine operativo lordo + 5,6 % ovvero l’ 8,7 % del fatturato, un record nella Grande Distribuzione, non solo italiana. Assunzioni + 811 unità, di cui 93 % con contratto a tempo indeterminato.

Quando, tanti anni fa, studiavo alle Harvard business school, un prof (bravissimo!! Gary Loveman – a proposito, leggete il suo articolo “Putting the Service-Profit Chain to work”) diceva che per valutare una azienda, alla fine, bisogna vedere se cresce la base clienti, se assume nuove persone e se fa utili.

Come Esselunga, caso da manuale, specialmente in un mercato “turbolento”.

Riprendiamo la solita vecchia domanda: ma è così difficile mettere il latte (e la Nutella…) vicino ai biscotti? Traduzione: perché non riusciamo a strutturare l’offerta in funzione dello shopper?

Tempo di attenzione: il falò del budget di marketing in 4 secondi

Lo scopo del marketing e della comunicazione è quello di portare il cliente al negozio dove avviene, in buona parte, la decisione d’acquisto. Gli shopper, noi stessi, siamo ampiamente influenzati da tutto ciò che esperiamo nel punto di vendita: la gradevolezza dell’ambiente, l’arredamento, i colori, la gentilezza e competenza del personale…

Mediamente, uno shopper sosta davanti allo scaffale per 15 secondi e dedica 4 secondi all’osservazione dei prodotti. In un tempo brevissimo quindi si consuma la decisione d’acquisto.

Il punto di vendita è un vero e potente media. Oggi, l’importanza e la rilevanza della marca è in calo, accediamo a centinaia di canali televisivi, radiofonici, siti, newsletter, blog, social networks. Nel passato era invece abbastanza comune scegliere un prodotto, una marca, e restarvi fedele per molti anni, a volte per sempre. Non vogliamo affermare che le tribù che si aggregano e riconoscono attorno ad un brand, pensiamo ai fan di Harley Davidson, Apple, Nutella, Coca-Cola, siano sparite. Anzi. E’ però vero che al di là di alcuni, pochi eletti, la competizione si svolge in modo spietato specialmente nel negozio (reale e virtuale) dove effettivamente si decide, influenzati dalla shopping experience, dal luogo, dalle promozioni, dalla comunicazione, dal contesto.

Non solo il cosa si compra ma anche come si compra. Lo shopping è un fenomeno sociale e, come ben sappiamo, i nostri comportamenti sono assai influenzati dal contesto. Con chi stiamo facendo shopping? Siamo soli? Stiamo facendo la spesa al supermercato con nostra moglie? Stiamo andando con un amico a comprare un regalo? Per chi lo stiamo facendo? Per noi stessi, per un amico, per nostro figlio, per la moglie?

Quanti shoppers acquistano effettivamente il mio prodotto?

Bella domanda! Non è facile dare una risposta. Nemmeno i dati scanner possono rispondere esaustivamente ad essa… ovvero, noi conosciamo il risultato finale (l’acquisto), ma poco sappiamo dello shopper e di come sia arrivato ad esso.

Possiamo scoprire qualcosa di più dalle carte fedeltà? Sì e no… o meglio dipende: la carta è per uso personale, ma può essere utilizzata in realtà da qualsiasi altro membro della famiglia del proprietario. In un caso di nostra pertinenza, abbiamo comparato i numeri di genere (maschi e femmine) degli shoppers rilevati da una tecnologia di videoanalytics (collocata sugli scaffali) con i numeri riportati dai moduli delle carte fedeltà. Queste ultime tendevano a sovrastimare il target femminile (face detection: 42%; carte fedeltà: 52%).

Bene, a questo punto vi starete chiedendo: che cosa sono i sistemi di videoanalytics? Ricostruiamo brevemente la loro storia: nati agli inizi del 21° secolo per scopi militari e di sicurezza, questi sistemi sono stati adattati ad altri ambiti, in particolare il mondo marketing e comunicazione. Essi consentono difatti di misurare le audience nei luoghi pubblici (siano essi circuiti digital out of home, supermercati, negozi, fiere o eventi), e più in particolare di contare i passaggi, i viewers (coloro che hanno effettivamente osservato uno schermo, uno scaffale, un prodotto…), e di misurare i tempi medi di permanenza (quindi sosta di fronte ad una determinata postazione) e di attenzione. Tutti i dati sono poi segmentabili per genere e fasce di età.

Il match combinato fra questi dati e quelli acquisibili da un retailer (quindi dati scanner e informazioni sul planogramma) consente di ricostruire il “path to purchase”, capire il comportamento del consumatore nel punto di vendita, e quindi verificare l’efficacia dei planogrammi e delle esposizioni ai fini dell’acquisto. Siamo così in grado di rispondere alla domanda posta all’inizio dell’articolo: Quanti shoppers acquistano effettivamente il mio prodotto?

Nella nostra piattaforma, Dianalytics™, realizziamo il match fra queste diverse fonti di dati (carte fedeltà, web analytics, planogrammi, advertising…), riuscendo quindi a “catturare” lo shopper dal suo ingresso nel punto di vendita fino allo scaffale. Quello che noi misuriamo é:

  1. Store traffic: persone che entrano nel punto di vendita
  2. Aisle traffic: persone che arrivano in corsia
  3. Shelf traffic: persone che arrivano di fronte alla categoria
  4. Potential shoppers: persone di fronte allo scaffale e che osservano la categoria
  5. Actual shoppers: persone che hanno effettivamente acquistato uno o più prodotti

In un caso riguardante un brand con un’alta awareness, da noi monitorato per un periodo di 6 mesi in un panel di iper in Italia, abbiamo raccolto questi dati: più di 470.000 shoppers sono entrati nello store; 37.931 persone, ovvero il 7,4% di essi, ha osservato il brand in questione, e “solo” 794 hanno proceduto al suo acquisto, ovvero l’1,4% degli shoppers potenziali. Se si riuscisse ad alzare la sale conversion all’ 1,7%, avremmo un incremento del sellout del 13%.

Ecco che la nostra domanda diventa: come convertire gli shoppers potenziali in attuali?

Leggete i prossimi post per scoprire la risposta 😉