Troppe promozioni? Troppo vicine nel tempo?

Più volte abbiamo analizzato la cannibalizzazione fra prodotti dello stesso brand durante le attività promozionali; spesso il risultato è a somma zero: la crescita temporanea di un prodotto va a scapito di un altro.

Questa volta proponiamo un caso sulla sequenza nel tempo dei tagli prezzo; un’importante attività svolta alla metà del mese di febbraio: riportiamo i dati (settimanali):

  Pre Promo Promo Post Promo
Volumi (pezzi) 18 261 26
Prezzo 3,60 € 1,80 € 2,98 €

Un taglio prezzo del 50 % ha portato ad una esplosione dei volumi ma…con un ROI negativo (- 1,8 %). Quindi una effettiva riduzione del margine.

Spinta probabilmente dai risultato eclatante l’azienda ha programmato nuovamente un’attività a fine marzo:

  Pre Promo Promo Post Promo
Volumi (pezzi) 12 66 9
Prezzo 3,60 € 1,80 € 3,30 €

Forse il lockdown ha influito sul risultato? Non esattamente: tutta la categoria ha avuto un beneficio in volume, specialmente nel mese di marzo a causa dell’overstocking.

Evidentemente la prima attività ha visto un’adesione massiccia alla promo. Gli shopper si sono stoccati e non è bastato un mese, nonostante la permanenza in casa, a smaltire le scorte. Il 72 % degli shopper che hanno visto i prodotti li ha acquistati durante la prima promo (il 67 % di coloro che sono arrivati alla categoria). La percentuale di acquirenti cala al 30 % nella seconda promo (anch’essa a ROI negativo).

Il caso può fornire alcuni spunti di riflessione sulla calendarizzazione delle promozioni: è necessario calendarizzare le attività considerando i consumi effettivi medi (i dati si possono anche estrarre dalle carte fedeltà, ma quante aziende le usano per pianificare le promo?), lasciando il tempo allo shopper di scaricare le scorte: un acquisto doppio di shampoo rispetto al consumo ordinario non fa raddoppiare la frequenza dei lavaggi e ha solo l’effetto di sospendere gli acquisti a prezzo pieno (ammazzando i margini).

La scelta dello shopper è facilitata nei supermercati rispetto agli Iper? Quale opportunità per le marche?

La corretta esposizione dei prodotti e il rispetto delle condizioni concordate con i retailer nei supermercati sono un problema, come ci sottolineano spesso i nostri clienti. Ci giungono sempre più richieste di analisi nei Super rispetto agli Iper, un po’ perché nelle grandi superfici si sono chiarite in modo abbastanza soddisfacente le dinamiche che generano il sell-out (anche se rimane comunque il buco nero del comportamento dello shopper davanti allo scaffale), un po’ perché si suppone di trovare qualche area di concreto miglioramento nel canale supermercati.

Abbiamo quindi pensato di estrarre dal nostro database Dianalytics™, che ormai ha superato abbondantemente i 15 milioni di shopper analizzati in tutti i format, qualche insight per una riflessione. Ci siamo posti la domanda: in un supermercato “tipo” dove quindi i criteri espositivi sono meno efficaci, lo shopper si trova in difficoltà?

Abbiamo selezionato alcuni top brand e alcuni follower in diversi settori (food, personal care etc.). L’analisi è ovviamente indicativa e non esaustiva; qualche spunto per riflettere. I risultati:

L’attrattività dello scaffale: dipende ovviamente dalla categoria ma nella maggior parte dei casi (66 %) abbiamo misurato una attrattività maggiore nei supermercati.

Conclusione dell’acquisto: se consideriamo tutte le interazioni, ovvero la somma del prodotto toccato ma non acquistato e degli acquisti, notiamo che la chiusura (ovvero quanti prodotti finiscono nel carrello) è anche in questo caso, nella maggior parte delle categorie, superiore nei super rispetto agli iper.

Sale Index: ovvero gli acquisti rispetto al totale degli shopper che hanno guardato la categoria, è superiore negli Iper per le categorie food mentre i risultati sono migliori nei super per le categorie non food.

Brand Equity: usando il modello di Dialogica per il calcolo della Brand Equity notiamo che gli Ipermercati hanno risultati decisamente superiori.

Conclusioni: il canale super offre ancora moltissime opportunità e lo shopper, forse per una maggiore fedeltà e familiarità con il/i  super vicino a casa, pare non avere alcuna difficoltà, anche a fronte di scaffali più confusi e disordinati. La minore ampiezza della gamma nei super è un elemento di semplificazione delle scelte (cosa ben nota e da noi rilevata continuamente).

L’ipermercato vince come media: la maggiore esposizione dei prodotti, lo spazio, la possibilità di comunicazione, giocano un ruolo positivo nella costruzione del valore della marca. L’ipermercato è un media molto più efficace del supermercato.

Dunque buone notizie: pochi miglioramenti nel canale supermercati possono portare buoni risultati. Per consolidare il valore della marca bisogna investire (anche, ma non solo: l’advertising resta comunque uno strumento determinante) negli Iper misurando non solo la vendita ma il contributo delle attività di marketing (Presenza a scaffale, fuori banco, volantini, in store radio o TV…) sul valore della marca. Qual è il valore generato dal sell-out e quale quello che sorge dalla comunicazione, come equity di lungo periodo della marca, che si riverbera, sempre nel lungo periodo, sul brand? In questo momento più che mai difficile sarebbe veramente necessario un investimento sul futuro della marca e non soltanto un insieme di attività di breve o brevissimo periodo.

I contributi alla GDO sono sempre giustificati? Il giuoco vale la candela? Spendiamo il nostro budget nel modo migliore?

Affrontiamo il tema della valutazione oggettiva delle richieste di contributi provenienti dal trade per attività di comunicazione di vario tipo.

Per capire se una azione, un volantino, una testata, un fuori banco, una campagna in radio o TV in store produce un risultato in termini di comunicazione dobbiamo misurare in modo oggettivo quanti consumatori raggiunge.

Ogni richiesta, che porta con sé un costo, deve creare valore (ottengo di più di quello che pago). Empiricamente sappiamo che queste attività dovrebbero facilitare il sell-out. Come? Quali sono più efficaci? In quali periodi? Sappiamo anche che la comunicazione in store è efficace perché fatta in prossimità della decisione d’acquisto. Buona comunicazione, buon effetto, cattiva comunicazione, cattivo effetto. Fin qui tutto chiaro: ma siamo in grado di rispondere in modo oggettivo (anche al controllo di gestione…) a queste domande?

Il contributo economico che il retailer richiede è equo? Garantisce cioè, in termini comunicativi, un ritorno positivo?

In pratica, pago il giusto o pago troppo per quello che sto ottenendo?

Qual è l’attività comunicativa con più ritorno? Una testata di gondola, un display, un volantino, una campagna di radio o TV in store?

Qual è il mix di attività che produce maggior valore?

Possiamo sapere a priori, cioè prima di effettuare l’investimento, se una richiesta del trade è economicamente giustificata?

Quanto valore produce rispetto al costo sostenuto?

Abbiamo mappato più di 15 milioni di shopper e sappiamo dove vanno nei punti vendita, quanto ogni forma di comunicazione è stata guardata, per quanto tempo: possiamo quindi calcolare l’impatto di ogni azione calcolando il valore.

Tutto fatto su dati esistenti, quindi nessun altro intervento nei punti vendita: se è richiesta una verifica on-field attiviamo i supermercati nostri partner.

Semplice, efficace, utile, economico.

Quanto valore reale creiamo investendo nei punti vendita?

Investire dove avviene l’acquisto sembra un’ottima idea. Una buona presenza della marca (in un prossimo blog daremo anche il valore delle marche in-store) al momento della scelta è uno dei must dello shopper marketing.

Durante la crisi, e ora che il peggio è passato, molte aziende stanno aumentando la pressione comunicativa negli store. La necessità impellente è la ripresa immediata dei consumi, quindi molti budget stanno affluendo al punto vendita. Budget che devono sempre più essere valorizzati nel modo migliore: si deve investire dove si riesce a creare maggior valore.

Dal trade organizzato arrivano richieste pressanti per contributi di marketing, che esulano dalla scontistica o dai vari premi: volantini, radio in store, Tv nei punti vendita ma anche cartelli, fuori banco… Costi elevati a fronte di quale valore? Non solo, quanto vendo in più, ma quanta pressione e valore di comunicazione riesco a generare con gli investimenti in-store? Ancora, posso paragonare gli investimenti in store ad altri media, in modo tale da poter decidere dove il budget produce più valore?

Le attività di comunicazione agiscono sull’equity della marca, quindi generano un valore di marketing molto rilevante (e di lungo periodo); sono quindi veri e propri investimenti sul futuro. Quanto valgono? Perché non quantificarli?

Proviamo a dare i numeri. La base di tutto consiste nella misurazione su un ampio campione di punti vendita in diversi format della presenza degli shopper ove è esposta la comunicazione. Questo serve per calcolare la pressione comunicativa. Bisogna poi assegnare un valore, un delta che premi le forme di comunicazione più efficaci, cioè quelle che attirano di più. Anche in questo caso è necessario avere i dati di efficacia della comunicazione. E’ ciò che abbiamo fatto mappando, su una base di 15 milioni di shopper raccolti negli ultimi anni, le forme di comunicazione e la loro attrattività.

Proviamo a misurare il valore di diversi media estraendo alcuni dati dal nostro database relativi ad una rete di supermercati:

  Vendite valore   MKT Value
 Scaffale        111.500        117.716
 Floor stand        148.900        181.900
 Radio              8.672
 Volantini            62.507
 Totale        260.400        370.795

Consideriamo un prodotto leader della categoria: nei 30 giorni considerati le vendite in valore sono state pari a 260.400 €. Abbiamo valorizzato il contributo di comunicazione dell’esposizione a scaffale, di un fuori banco (floor stand) di una campagna radio e di un volantino. Il totale venduto + marketing ammonta a 370.795 euro: il 70 % del valore complessivo proviene dalle vendite, il 30 % dal marketing.

In generale, confrontando il costo sostenuto per la somma delle attività e il valore di marketing prodotto, senza considerare le vendite, si genera un ROI assai positivo (+ del 50 %). Se si dispone degli strumenti corretti per valutare l’investimento in-store ex-ante (ovvero quando arriva la proposta del retailer) si può valutarne la convenienza, che, come in questo caso può essere decisamente alta!

Quanto vale la comunicazione in store?

La domanda non è peregrina se, come pare, il 70 % delle decisioni d’acquisto avviene all’interno dello store. Quindi, la comunicazione deve creare valore ed essere massimamente efficace perché prossima (quindi influente) all’acquisto. Ma quanto vale la sola presenza del prodotto a scaffale? E una testata di gondola? Un fuori banco, un volantino? Si badi bene, quanto vale non quanto costa! Differenza fondamentale. Tutti sappiamo cosa costa la presenza su un volantino, dato che paghiamo cifre profumate per far comparire il nostro prodotto. Nella maggior parte dei casi non sappiamo però che valore produce, ovvero cosa otteniamo in cambio della somma pagata. In generale si sa che i volantini aumentano le vendite, come le testate, una buona posizione a scaffale, molti facing. Torniamo però alla questione di base: la comunicazione sul punto vendita deve generare valore per facilitare la vendita. La comunicazione che crea valore deve essere visibile, attrattiva, facilmente riconoscibile e decodificabile, semplice, comprensibile. Come sempre il fulcro è lo shopper, ovvero colui che acquista. Per capire il valore (e non il costo) di ogni attività in store è quindi necessario misurare l’incontro che lo shopper ha con ogni forma di comunicazione di una marca in uno store (usiamo volutamente questa parole per non incorrere nell’errore semantico del punto vendita, visione tipica (miope) dell’industria che ha come scopo vendere; ben più corretto sarebbe, in una vera ottica di shopper marketing, parlare di luogo di acquisto (ottica del cliente)).

The Valuehub, società spin-off di Dialogica specializzata nella valorizzazione delle attività di comunicazione, con particolare focus sul below-the-line, ha sviluppato la metodologia Store Media, un modello che attinge dalle misurazioni di Dialogica sulla quantità e i comportamenti di più di 15 milioni di shopper in iper e super mercati. I dati sulla presenza, l’attenzione, l’attrattività, sono utilizzati per misurare (attingendo anche a valori economici e comunicativi di media tradizionali calati nella realtà degli store) l’efficacia comunicativa, partendo dalla semplice presenza del prodotto a scaffale, considerando fuori banco, cartelli, pendagli, espositori, volantini. In pratica Store Media offre le risposte ad alcune domande che il trade e il consumer marketing si pongono: la richiesta del trade (costo) è giustificata, produce cioè più valore di quanto costa? Qual è il ritorno sull’investimento delle attività in store, al di là della vendita potenziale? Più comunicazione e più efficace aumenta il sell-out?

L’analisi è svolta ex-ante, attingendo ai 15 milioni di casi del database Dialogica a cui può seguire l’analisi in-store utilizzando i supermercati reali per la verifica dei risultati.

Che succede se lo stesso prodotto è inserito in due diverse categorie?

L’innovazione di prodotto, con nuove varianti salutistiche, “green”, light, pone spesso agli uomini di marketing alcune domande la cui risposta, all’atto pratico non è sempre facile. Supponiamo di avere sviluppato una nuova merendina, senza glutine, senza zucchero ma, grazie alla formula, particolarmente gustosa. Dove posizionarla? Nello scaffale delle merendine o in quello dei prodotti dietetici? Con quali vantaggi in volume e con quali conseguenze per l’immagine di marca?

Proponiamo, come sempre, un approccio pragmatico. Un caso che abbiamo seguito. Abbiamo inserito in sequenza il nuovo prodotto nella categoria tradizionale, per circa 9 settimane. Lo abbiamo poi spostato nello scaffale “test”, ovvero in una categoria affine per momento di consumo ma diversa per vissuto di prodotto.

Iniziamo ad analizzare la quantità di shopper davanti alle due categorie:

In modo inaspettato, la categoria test, che produce un sell-out molto superiore della tradizionale (+ 140 %) ha un numero di shopper potenziali, ovvero coloro che arrivano davanti allo scaffale e guardano i prodotti, maggiore del 17 % rispetto alla categoria tradizionale. In pratica, meno presenze, meno potenzialità di vendita ma più volumi, più vendite multiple. Più shopper davanti ai prodotti: più convertion? Nella categoria tradizionale il 42 % delle interazioni (ovvero i prodotti toccati) si trasformava in acquisto. Nella categoria test l’indice calava al 25 %. Più gente, più vendite multiple ma decisamente più dispersione nella categoria tradizionale.

Più shopper equivale a più attenzione? Nella categoria tradizionale il prodotto attirava il 72 % degli shopper, in quella test l’81 %. Nove punti in più, che tradotti in numero di shopper equivalgono a 2.000 shopper medi per settimana.

Ciò che rende realmente il prodotto una SKU da categoria test è la rilevanza, cioè un indice da noi calcolato che permette di misurare quanto un prodotto attrae e interessa gli shopper. L’indice per il prodotto risulta doppio nella categoria test rispetto alla tradizionale. Quindi, lo shopper riconosce la categoria test come la “casa” del prodotto: il suo positioning è decisamente allineato alla categoria test.

Ovviamente tutto ciò si trasmette alla scelta del prodotto da parte degli shopper: il sale index, ovvero il tasso di acquisti degli shopper, in pratica la preferenza, considerando 100 shopper che guardano i prodotti, passa dallo 0,3 % (tradizionale) al 2,3 % (Test).

I mercati post Covid

Quando le regole del mercato si stravolgono, come è successo con l’epidemia Covid, le elaborazioni di scenari per la ripresa diventano molto difficili.

Nessuno strumento analitico, dato che tutti si basano su serie storiche, riesce a elaborare scenari o previsioni dato che le premesse sono stravolte: il domani non sarà un effetto di ciò che è accaduto ieri.  In questo caso l’esperienza umana sconfigge le macchine (un’altra bella lezione di questa crisi).

La situazione attuale, a differenza di precedenti crisi (vedi 2008) è causata da un cambio radicale nei paradigmi di consumo: la dimensione più/meno è fuorviante, o perlomeno limitante per definire gli scenari futuri. E’ prevalsa la diversità: differenti abitudini hanno imposto, o sollecitato, diversi comportamenti di consumo, anche in categorie FMCG, che hanno subito meno di altre l’effetto della crisi.

Una recente analisi di Mediobanca riporta che la GDO ha aumentato i volumi del 9,1 % e i profitti del 34,1%.

I consumatori hanno acquistato di più e a prezzi più alti. Le attività promozionali sono sparite e ciò nonostante le vendite sono cresciute: la necessità (o il timore, spesso irrazionale) ha prevalso sulla convenienza?

Una quota elevata di shopper ha utilizzato, forse per la prima volta, la spesa on line o il click & collect. I prodotti d’impulso hanno sofferto, non solo per la minore coda alle casse dei supermercati, ma anche per la crescita delle vendite on-line. Cosa succederà alla fine della crisi?

Insomma, l’epidemia ha dimostrato una cosa che gli studiosi di marketing conoscono bene: l’essere umano è il vero fattore decisivo. Un cambiamento, anche per periodi tutto sommato brevi, nei bisogni, negli atteggiamenti, nei comportamenti, può produrre risultati dirompenti nei mercati.

Gli shopper, nella fase 2, stanno ritornano ai loro vecchi comportamenti? I dati da noi rilevati riportano un aumento del traffico negli store a partire dalla fine di aprile: durante gli ultimi due mesi avevamo assistito a picchi improvvisi di shopper davanti agli scaffali, sintomo di scorta. Dalla fine di aprile si nota un trend crescente in modo più lineare: si sta tornando lentamente a fare la spesa, anche in coppia. Alla crescita delle presenze non corrisponde un aumento proporzionale del sell-out. Perché?  Più gente non equivale a più acquisti. Il fenomeno andrà approfondito con grande attenzione viste le rilevanti conseguenze su categorie e marchi.

Covid 19: vince la promozione o la necessità? uno stimolo per riflettere

Mentre analizzavamo i dati pre e durante l’epidemia, abbiamo notato un fenomeno particolare. In super store (2500/3000 mq) in aree urbane, quindi sempre aperti, abbiamo potuto analizzare l’effetto sugli acquisti di una attività promozionale nazionale, dal 6 al 20 febbraio, e l’effetto Covid a partire dalla fine di febbraio.  Promo molto importante per portata (molte referenze) e taglio prezzo (40/50%).

Dove sta la particolarità? Primo, il numero di ingressi negli store (media settimana) durante la promo era di circa 18.000 shopper. Nella prima settimana di “Covid” (24 febbraio) il numero scende a 17.000, per arrivare a 18.500 nella successiva e a 23.000 nella settimana dal 9 aprile. Poi crollo a 10/11.000 ingressi nelle settimane successive.

Durante le settimane promo si vendono in media 3.000 confezioni a settimana che calano a 2.500 a inizio epidemia, a 2.200 nella prima settimana di aprile per consolidarsi a 1.300/1.400 nelle settimane successive.

Acquisti medi: 2,95 pezzi durante la promo, 2,14 l’ultima settimana di febbraio poi a salire, fino a 3,3 pezzi per shopper.

Gli spunti per riflettere: la dinamica delle presenze in store va analizzata in dettaglio perché, come si vede, il dato medio di un certo periodo (ad esempio tre settimane prima della crisi e tre dopo l’inizio) è fuorviante.

Il sell-out, se preso in totale, non rappresenta un indicatore adeguato: racconta un effetto ma non le cause.

Lo shopper è il vero elemento determinante: ciò che si modifica in modo evidente, e rappresentativo del cambio di paradigma, è l’acquisto medio di coloro che sono arrivati allo scaffale, hanno guardato e acquistato i prodotti.

Ultima , ma non indifferente informazione: di fatto lo shopper sta comprando di più e A PREZZO INTERO, spinto dalla necessità (timore, ansia, l’atavico arraffare italico…). E non poco: gli acquisti medi crescono dell’11,9 % in volume nella settimana di picco Covid rispetto alle settimane promo.

In pratica, più vendite e margini per retailer e imprese: ciascuno tragga le sue conclusioni.

Covid 19: Come cambia lo shopper durante l’epidemia: 3 – Supermercati

Consideriamo ora il canale supermercati dopo avere analizzato gli Iper nel primo e nel secondo post pubblicati.

La situazione dei supermercati è decisamente migliore rispetto agli Iper (anche escludendo, come abbiamo fatto nella nostra analisi le superfici nei grandi centri commerciali). I flussi sembrano in qualche modo correlati alla espansione dei casi positivi: ad esempio, in Emilia, terza regione per numero di contagiati, il calo rispetto all’inizio dell’epidemia, è circa del 20 %. Nel Lazio, sesta regione in Italia e con un numero di contagi inferiore di due terzi rispetto all’Emilia Romagna, il calo è di circa 10 punti percentuali.

Quindi buona tenuta dei flussi che peraltro si inseriscono in un periodo di calo fisiologico dovuto alla stagionalità. Se consideriamo gli shopper, coloro che sono arrivati allo scaffale e hanno valutato l’acquisto, concludendolo o meno, il calo è meno deciso: sempre considerando le due regioni tipo, in Emilia rileviamo – 14 %, nel Lazio una sostanziale parità rispetto al pre virus.

Consideriamo i volumi: In Emilia gli acquisti per shopper sono più che raddoppiati (anche se il trend è in calo), mentre nel Lazio si registra, in anticipo rispetto all’Emilia una leggera flessione. Ricordiamo che stiamo analizzando una categoria food “media”.

In Emilia la suddivisione per genere si modifica leggermente, con calo dei maschi e crescita di 4 punti percentuali delle femmine, dato analogo per il Lazio. Ciò che si modifica sono i tempi di sosta davanti allo scaffale e il tempo di scelta dei prodotti (i dati sono in secondi medi):

  Emilia   Lazio  
Permanenza Scelta Permanenza Scelta
Pre Covid 6,6 1,9 8,4 3,5
Covid 6,9 2,0 10,4 4,7

Decisamente più alti nel Lazio, con una crescita del 4 % circa in Emilia (Covid vs. pre Covid). Nel Lazio la permanenza aumenta del 23 % e la scelta del 34 %.

In pratica, la geometria del comportamento dello shopper varia in maniera determinante per format e zona geografica, come c’era da aspettarsi. Meno presenze ma più acquisti: è interessante notare che sia negli Iper di piccole dimensioni (post 1, 17 aprile) sia nei super da noi analizzati, ad esempio in Emilia, l’acquisto medio per shopper tende a raddoppiare. Si nota una maggior presenza di donne ma soprattutto un aumento della indecisione. La scelta sembra decisamente più ragionata nei supermercati, cosa che non accadeva negli Iper.

Covid 19: Come cambia lo shopper durante l’epidemia- Ipermercati 2

Nel Post precedente abbiamo analizzato il calo del traffico negli Ipermercati, che rientrava in un trend già decrescente. Meno persone nei punti vendita ma anche meno shopper davanti ai prodotti. Il dato non sorprende, dato che solo un componente del nucleo familiare è autorizzato ad entrare negli store per fare la spesa.

Trattiamo ora del comportamento dello shopper e dei suoi acquisti. Intanto, il tempo medio dedicato alla scelta dei prodotti è calato del 10 %. Quindi meno gente davanti agli scaffali che effettua scelte più veloci, meno tempo di attenzione ai prodotti e minore permanenza nei punti vendita. La epidemia non genera modifiche nella composizione degli shopper per genere, mentre aumenta di 5 punti la percentuale di giovani (calano anziani e adulti).

Consideriamo i volumi:

Anche in questo caso poniamo a 100 l’acquisto medio prima dell’inizio della crisi. A fine gennaio si rileva un’importante attività promozionale, a cui segue una flessione fino alla fine di febbraio, cioè all’inizio dell’epidemia. La curva poi si impenna, fino a raggiungere un acquisto medio di 3,34 confezioni contro l’1,65 a metà gennaio. Un aumento del 120 %.

Meno shopper ma crescita delle quantità acquistate. Nel prossimo post analizzeremo la situazione nei supermercati.