Vedere Rihanna significa portarla a cena? L’illusione dell’eye tracking.

Evidentemente no. Così come vedere un prodotto non significa acquistarlo. Troppe variabili sono in gioco: la rilevanza della marca, il prezzo, la novità (e la mancanza di innovazione delle marche concorrenti a scaffale), la posizione, il numero di facing, le promozioni… Talmente tante variabili da rendere poco rilevante la mera misurazione del punto dove si posa lo sguardo. Quindi perché affidarsi all’eye tracking? E’ bello vedere dove si posa l’occhio di uno shopper ma il processo di acquisto è MOLTO più complesso e per molti professionisti dello shopper marketing è ancora oscuro.

Dobbiamo misurare tutti gli shopper che osservano una certa sezione dello scaffale per rappresentare le possibili opzioni di scelta a cui lo shopper è sottoposto. Passaggio successivo; dopo aver visto TUTTI i prodotti, cosa tocca lo shopper? Ovvero, l’attenzione come si traduce in interesse? Di tutte le possibilità offerte dalla categoria, quale attrae, coinvolge, spinge all’acquisto?

Lo shopper tocca un prodotto: poi lo compra? Non è detto. Un progetto di analisi su cui stiamo lavorando ci insegna che dal 10 % (marca) al 70 % (non marca) delle interazioni (prodotto toccato) non si trasforma in un acquisto.  Quindi, dal 10 al 70 % di opportunità perse, anche se lo shopper ha guardato i prodotti. Ho incontrato Rihanna ma, ahimè, non me la sono portata a cena…

Se inseriamo in un modello tutte le variabili otteniamo una mappa dello scaffale che descrive chiaramente cosa influisce sulla decisione di acquisto: la marca, la posizione, il facing, il prezzo, le promozioni? Se avrete voglia di scriverci (matteo.testori@dialogica.it) vi manderemo un caso reale…molto utile. Fidatevi.

Le opportunità perse (dai retailer italiani) mentre il mondo si muove

Molto spesso ci è capitato di stimolare i retailer con semplici ma efficaci suggerimenti: perché ad esempio di fianco al pesce non si inserisce un espositore con i vini da abbinare (magari con un piccolo sconto) ai diversi piatti? Esselunga ha fatto un modesto passo: nessun espositore ma almeno un cartello (piccolo) che segnala gli sconti su alcune etichette di vino bianco.

Per il resto encefalogramma piatto. Perché si continua a parlare di innovazione ma in pratica non si fa nulla, se non riproporre il sampling delle marche nei negozi? Nella foto un esempio che ho trovato in un ipermercato vicino a Dublino. Non solo un’ottima selezione di vini, un’eccellente esposizione, scaffali arricchiti con indicazioni sulla provenienza e gli abbinamenti delle etichette. Un’intera zona del punto vendita è dedicata alla promozione che in realtà è un’area di “engagement” dello shopper.

Certo, nulla di speciale, cose viste all’estero da parecchi anni; nulla (o qualche sporadico caso) in Italia. La spesa off-line vivrà se lo shopper troverà piacevole, interessante, divertente recarsi in uno store fisico. Quindi, esperienza e divertimento, non solo sconti e (vera o presunta) qualità.

La differenziazione non si giocherà solo su prezzi e assortimenti (ridondanti) ma soprattutto sulla piacevolezza. Lo store deve essere portatore di una narrazione possibilmente credibile ed esclusiva per avere successo. Ritorneremo su questo tema.

Osserviamo gli shopper mentre stanno acquistando

Riprendiamo quanto abbiamo visto nel nostro ultimo post: il nostro sguardo osserva chi compra, il suo comportamento, direttamente dallo scaffale. Nessuna intrusione con il normale processo di acquisto, nessuna influenza, solo l’osservazione dell’ordinario processo che porta dall’interesse ad un prodotto al suo acquisto.

Questa volta consideriamo un prodotto alimentare (nella precedente puntata abbiamo trattato il non food): il caso è interessante dato che confrontiamo una categoria, con un leader molto consolidato (linea a punti color ocra), un nuovo player che tenta di attaccare il leader (linea blu). In cima al pentagono consideriamo uno “shopper medio” ovvero la media di tutti gli shopper che davanti allo scaffale hanno concluso un acquisto.

La vita per lo sfidante è dura: lo shopper preferisce decisamente il leader, con cui ha interazioni ben superiori (+ 36 %). Il nuovo prodotto evidenzia un acquisto medio per shopper superiore del 17 % rispetto alla media; lo stesso dato cresce al 70 % per il leader.

In pratica, una netta preferenza per la marca leader. L’analisi può essere condotta su nuovi prodotti in test, su nuovi pack o pack design, su nuovi display, scaffali, planogrammi, nei supermercati associati a Dialogica,  per avere dati oggettivi da punti vendita veri. Ovvero, osservare lo shopper nel suo vero processo di acquisto: dati reali da persone reali, in negozi reali, quindi massima efficacia dell’analisi.

Sullo scaffale ad osservare gli shopper

Molti anni fa l’AD di Coca-Cola Company, mio capo, mi consigliava sempre di osservare gli shopper (allora non li chiamavamo così) mettendomi vicino allo scaffale. Tuttora consiglio la stessa cosa ai miei studenti: è una attività estremamente utile da cui si impara moltissimo. Purtroppo il tempo che possiamo dedicare all’osservazione dei comportamenti d’acquisto è molto poco. La tecnologia ci viene in aiuto. Con i sensori di Dialogica installati sullo scaffale possiamo raccogliere ogni giorno tutti i dati sullo shopper, i suoi comportamenti, le scelte o le non scelte (si impara di più dalle cose che non funzionano).

Facciamo un esempio: in una categoria non food consideriamo i primi tre marchi; il Brand A è il leader.  Il modello prevede che uno “shopper medio” (In alto nel diagramma) sia davanti allo scaffale. Per ciascun prodotto e per la categoria consideriamo la differenza rispetto alla media (100) del numero delle volte in cui un prodotto è toccato (toccato), acquistato, il totale delle interazioni (toccato + acquistato) e il numero di vendite per singolo shopper.

Gli score del leader sono decisamente molto sopra la media: dove stravince? Nella preferenza accordata dagli shopper, 63 % più elevata della media, ciò porta più interazioni e acquisti. Lo shopper medio è ancora, per fortuna, affascinato dalla marca. Il modello permette una diagnosi completa della salute della marca, confrontandola con i concorrenti attraverso l’osservazione passiva e non intrusiva dello shopper. E’ come star seduti tutti i giorni sullo scaffale ad osservare: il mio ex capo sarebbe contento.

Troppa roba, troppi sconti? Quando l’affollamento e le promo ammazzano le categorie.

Confrontiamo una categoria food, con una penetrazione molto elevata in famiglia, in tre catene diverse.

Nella prima catena:

138 referenze – Il 7 % genera il 46 % del sell-out – Il 22 % vende un solo pezzo al mese.

Nella seconda catena:

158 referenza – il 10 % dei prodotti genera il 52 % delle vendite – Solo 2 prodotti vendono un solo pezzo al mese.

Nella terza catena:

260 referenze – il 9 % genera il 40 % dei volumi – Il 15 % vende meno di un prodotto al mese.

La prima e la terza catena hanno un’efficacia assortimentale molto bassa. Troppe referenze a scaffale con rotazioni che deprimono i risultati dell’intera categoria.

Nella terza catena l’intensity index (% di prodotti venduta in promozione) è del 64 %, nella seconda del 42 %.

Nel PV analizzato per la terza catena il maggior traffico davanti allo scaffale è sprecato: il PV della seconda catena, con la metà di shopper davanti allo scaffale genera 2,38 volte più vendite per singolo cliente (medio). In assoluto, il sell-out della catena 2 è stato superiore del 9,5 % alla catena 3, pur con minore pressione promozionale, meno spazio, meno referenze.

Quindi scelte assortimentali e promozionali inadeguate che trascinano verso il basso tutta la categoria. Un’ulteriore avvertenza: com’è possibile misurare la reale efficacia di una categoria, di un cambiamento di planogramma, di un progetto di category management quando il dato è inquinato da fattori che non consentono di leggere il risultato reale (referenze inutili, promo sprecate)? Una maggiore attenzione allo shopper (riuscendo però a raccogliere dati reali e significativi) e meno smanie per i listing fee o i contributi promozionali magari aiuterebbero i margini. Ma questo è un capitolo a parte…

Quante vendite perde il mio prodotto quando è in promozione?

Nel precedente post abbiamo visto che la marca analizzata era stata toccata 18 volte senza essere messa nel carrello ed era stata acquistata 4,6 volte (media giorno). In pratica, ho perso il 75 % delle opportunità di vendita. WOW!! Se recuperassi il 5 % delle vendite perse avrei una crescita (teorica) del sell-out del 14 %. Ora, possiamo capire in dettaglio cosa inibisce l’acquisto: il prezzo? La visibilità del prodotto? L’equity dei concorrenti? Mettiamoci davanti allo scaffale, accendiamo i nostri sensori e vediamo cosa succede.

Iniziamo, ovviamente, con le promozioni. Prendiamo quindici giorni di attività con uno sconto del 25 %. Prima cosa che può sembrare stupefacente: diminuiscono gli shopper potenziali (ovvero quelli che guardano i prodotti). Prima della promo registravamo circa 100 persone al giorno, che calano a 78. Nulla di strano: il 46 % delle vendite durante la promo è in fuori banco (ebbene sì, misuriamo anche da dove si genera il sell-out nel punto vendita e capiamo quante vendite vengono dallo scaffale e quante dai fuori banco).

Durante la promo 13 persone hanno toccato il prodotto senza comprarlo e si sono avuti 18 acquisti (consideriamo lo scaffale per fare un confronto omogeneo con il periodo no promo). Quindi: le vendite perse (toccato ma non comprato) diminuiscono del 28 %. Gli acquisti sono più che triplicati. Ottimo risultato, anche economico: il ROI è positivo (+ 1,88), risultato non banale dato che molto spesso rileviamo ROI negativi nelle attività promozionali. Rimangono comunque da recuperare 13 acquisti potenziali non conclusi: che fare? Forse il prezzo non è l’unico fattore, o comunque non il più rilevante?

Nel prossimo post proseguiremo l’analisi e introdurremo l’intelligenza artificiale per definire le regole che determinano il sell-out.

Quante vendite perde il mio prodotto?

Pur sapendo che il vero momento dell’acquisto, cioè quando lo shopper è davanti allo scaffale e deve decidere, è un buco nero (in senso cognitivo, se ne sa pochissimo, in letteratura e nella prassi), abbiamo qualche informazione sul sell-out del prodotto. Che dire delle vendite perse? Ovvero, quanti shopper guardano il mio prodotto ma non lo acquistano? O, peggio, quanti toccano il mio prodotto ma non lo mettono nel carrello e magari (tragedia) scelgono un competitor? Nebbia. La mancanza di informazioni attendibili, quindi reali e quantitativamente rilevanti, non da la dimensione del potenziale dei prodotti e non permette di imparare quali fattori (posizione, esposizione, prezzo, packaging, visual…) stimolano o inibiscono l’acquisto. Una cecità tragica per chi si occupa di marketing.

I nuovi sensori Shelf Scanner, affiancati ai nostri sensori di Shopper Detection permettono in tutti i supermercati (al momento possiamo attivare circa 300 punti vendita reali in tre store format più 4 punti vendita reali di dimensioni più piccole da usare in modo sperimentale) di misurare in modo preciso, esteso e, soprattutto reale, il comportamento degli shopper calcolando, fra l’altro, le vendite perse.

Come sempre passiamo ad un caso: prendiamo come esempio un ipermercato e analizziamo un prodotto (marca molto nota) a scaffale in periodo non promozionale:

Il prodotto ha avuto circa 100 shopper potenziali (ovvero coloro che lo hanno guardato) al giorno. E’ stato toccato da 18 Shopper senza arrivare ad un acquisto: sono stati acquistati 4,6 pezzi medi giorno. Quindi, fatto 100 il potenziale massimo (ovvero quelli che hanno guardato), il 18 % è stato attirato ma non ha concluso l’acquisto e solo il 5 % circa ha acquistato (semplifichiamo: in realtà un 6 % degli acquirenti ha fatto un acquisto multiplo). Circa 13 vendite perse.

Cos’è andato storto? Quanto potenziale sto sprecando? Cosa posso fare per migliorare? Domande fondamentali a cui fino ad ora era molto difficile rispondere.

Nel prossimo post vedremo il caso dello stesso prodotto durante una promozione.

Come scovare nuove opportunità negli assortimenti per aumentare volumi e margini

Torniamo con il primo post del 2019 per analizzare come si possono cogliere occasioni di aumento del sell out per brand e retailer.

Consideriamo la categoria delle acque minerali e una analisi effettuata in quattro ipermercati per 20 settimane. Il compito: migliorare il sell out e la redditività della categoria (sai che novità!).

Analizziamo i dati: 582.000 shopper transitati davanti alla categoria, 4.000 confezioni singole e 10.000 fardelli venduti in media per settimana. Il 64 % degli shopper ha osservato i prodotti, il 65 % di coloro che hanno guardato i prodotti ha acquistato un fardello, il 27 % una confezione singola.

Domanda: perché perdiamo il 35 % degli shopper potenziali nei fardelli e addirittura il 73 % nelle confezioni singole?

L’intensity index (pressione promozionale) medio è del 35 %. Categoria frammentata, con continui problemi di rottura di stock, alte rotazioni, margini minimi e in continuo calo. Che facciamo? I dati “classici”, quote di mercato, quote spazio, Roi delle promo, non offrono nessuna chiave di lettura. La discussione degli attori attorno al tavolo, retailer, category leader, Dialogica, si aggroviglia attorno alle solite questioni: inserire una linea primo prezzo, everyday low price…mah… sa di aria fritta.

Poi analizzando i dati scopriamo la formula magica: sale index, ovvero gli atti d’acquisto legati al numero di shopper che guardano i prodotti. Si apre un nuovo mondo dato che abbiamo riunito in un unico indice la quantità di shopper, l’attrattività dei prodotti, le vendite.

Scopriamo (il grafico mostra il sale index delle confezioni singole) che 3 referenze (cerchiate nel grafico) su un totale di 16 (37 %) hanno un indice superiore alla media e sono tutte confezioni da mezzo litro.

Analizziamo in dettaglio l’assortimento, l’esposizione, la rotazione delle mezzo litro in confezione singola o in fardello: risultato: manca la frizzante del leader, l’esposizione a fardelli è sopra i bancali e non c’è una logica, né per tipologia (gassata/naturale) né per brand; la pressione promozionale è circa la metà della media della categoria; ma soprattutto, le confezioni sono molto ricercate dagli shopper e le condizioni assortimentali ed espositive non sono adeguate: lo shopper cerca ma non trova. La conclusione del retailer: stiamo perdendo un’opportunità. Azioni: inserimento delle referenze mancanti per completare la gamma, revisione dell’esposizione. Risultati: aumento del sell-out e della redditività (ma non vi dico di quanto…).

 

 

Le ricerche consumer indicano una percentuale di RA (donne) dell’80 %. Ma chi compra veramente?

Andiamo subito al nocciolo della questione: Il dato generalmente utilizzato nelle ricerche consumer riporta una percentuale del 75 % di RA alimentari donna.

Davanti allo scaffale abbiamo rilevato la seguente suddivisione di shopper, utilizzando i sensori Dialogica che monitorano in continuo tutti gli shopper (in modo censuario e non campionario) che segmentano per sesso e fasce d’età:

Donne: 49 %

Uomini: 51 %

Continuiamo: nelle acque minerali (analisi su 4 Ipermercati) la situazione è la seguente:

Donne: 39 %

Uomini: 61 %

Qualcuno dirà: impossibile! Peccato che se si analizzano i dati si scopre che il 74 % delle vendite è fatto da fardelli, il grosso dei quali è acquistato il sabato e proprio in questo giorno la presenza dei maschi vola in alto (c’è una correlazione pari a 0,78 fra maschi che osservano i prodotti e sell-out dei fardelli).

Vediamo la segmentazione nei succhi di frutta (la mamma compera per il bambino?):

Donne: 47 %

Uomini: 53 %

Di fatto il marketing delle aziende sta vivendo nel mito delle Signora Maria, la regina incontrastata della casa, la signora che decide le sorti di una marca. E il povero signor Mario? Perché non possiamo accettare che la contaminazione dei generi coinvolga anche chi si reca a fare la spesa? Quante opportunità stiamo tralasciando per colpa di un pregiudizio? Oppure la colpa è solo quella di non fare ricerche shopper? Un dato per tutti: in media, sempre dalle nostre rilevazioni, uno shopper decide l’acquisto in 4 secondi (nelle acque in circa 2 secondi: quanto gioca l’equity della marca sulla decisione di acquisto? Esiste una correlazione fra tempi di acquisto e valore della marca? Come si traduce in atti di acquisto?). In questo tempo brevissimo si scarica tutta l’attività di marketing dell’azienda. Non sarebbe il caso di approfondire questo autentico (e vitale, per le marche) momento della verità?

Gli hot spot nei PV e i risultati di vendita

Riprendiamo dopo la pausa di agosto da dove ci eravamo lasciati (https://dialogica.it/blog/2018/07/13/piu-gente-nei-corridoi-significa-piu-sell-out-analizziamo-un-caso/).

Una volta arrivati davanti alle esposizioni, che succede? Possiamo misurare l’effetto reale dei display in termini di efficacia espositiva/comunicazione e di effetto sul sell out?

Prendiamo l’indice sviluppato da Dialogica e chiamato Sale Index. L’indice riunisce l’atto d’acquisto, quindi in sostanza le vendite (è infatti correlato alla market share) con il numero di shopper che guardano un prodotto. E’ forse il più importante indicatore di performance dato che aggiunge alla quota di mercato la dimensione e il comportamento dello shopper. Si legge come la market share, ovvero in percentuale e più è elevato meglio è.

Se vogliamo capire come la posizione nel punto vendita, la creatività, la equity della marca si traducono in vendite dobbiamo correlare fra loro diverse variabili:

  1. In primis l’attrattività dei display con il sale index.
  2. Poi il numero di interazioni (cioè il numero di volte in cui uno shopper tocca i prodotti) sempre con il sale index.

In questo modo abbiamo correlato sulla variabile comune (sale index) che riporta lo shopper e i suoi acquisti l’attrattività del prodotto e l’interesse (lo tocco).

I risultati:

Le due zone/display A e B che avevamo analizzato nel post di fine agosto hanno i seguenti risultati:

La zona/display A, che ricordiamo genera il 12 % di vendite in più della B, deve la sua performance a una migliore attrattività (effetto della creatività) che si traduce in maggiore interesse (interazioni) e in maggiore sell-out.