Fuori stock e investimenti in advertising: che cosa succede se non c’è un adeguato presidio dei punti di vendita

Oggi affrontiamo il delicato problema delle rotture di stock. In tanti casi le aziende lamentano problemi di inefficienza nella gestione del processo di supply chain. Queste si traducono inevitabilmente in vendite perse.

Nella tabella sono riportati, per un periodo di tre mesi, i fuori stock puntuali, cioè per ciascun prodotto, di una categoria. Mediamente, per il 13 % del periodo di analisi, i prodotti non sono stati disponibili alla vendita sugli scaffali. Il leader di categoria (referenza 5) è stato assente dagli scaffali per il 10 % del tempo.

Che succede, a questo punto, se stimoliamo lo shopper attraverso la pubblicità? A questo proposito, abbiamo introdotto un modello che consente di confrontare la pressione pubblicitaria, espressa in GRP, con l’attenzione ai prodotti e le vendite.

Qui riportiamo un esempio, basato su un monitoraggio di 8 settimane. La linea rossa rappresenta il numero di viewers, ovvero coloro che hanno prestato attenzione al prodotto oggetto della campagna pubblicitaria; la linea arancione le vendite effettive; la linea blu le vendite potenziali in assenza di fuori stock.

In media si è registrata una percentuale di fuori stock per il prodotto in oggetto del 5,8 %. Significa che in 56 giorni di rilevazione, il prodotto è stato assente dagli scaffali per 3,24 giorni. Dato non tragico.

Se però consideriamo le due settimane in cui si è svolta la comunicazione, tale dato sale al 21 %! Ciò significa una perdita di vendite potenziali del 18 %.

La pubblicità genera maggiore attenzione al prodotto (vedete come si alza la curva di attenzione!), quindi potenzialmente più propensione all’acquisto e traffico nei negozi. In questo caso, l’effetto della comunicazione è stato però vanificato da una gestione superficiale delle scorte, con un danno concreto sia per il produttore che per il distributore.

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