Leggiamo sempre più di frequente articoli in cui i retailer elogiano la qualità dei prodotti in assortimento. Ottimo! Peccato che, come può affermare chi ha studiato per molti anni la letteratura e i casi di marketing, la qualità è del tutto soggettiva (quanto e come investono i retailer per capire la soddisfazione dei clienti?).
In realtà è qualità ciò che piace agli shopper (è apprezzato, quindi è scelto). Un vino in brik non è necessariamente di cattiva qualità rispetto a ciò che il target di shopper potenziali si aspetta, sempre rispetto al prezzo pagato. Quindi in questo caso il concetto di qualità (come sa bene chi studia la Brand Equity) è relativo.
Abbandoniamo la soggettività ed entriamo nel dato oggettivo, ciò che scelgono gli shopper. Scopriamo (caso limite, ma non troppo) che in alcuni ipermercati, in categorie con un’elevatissima penetrazione, il 30 % dell’assortimento (non vi sbagliate, il 30 %!!!) vende 1 pezzo al mese (Dati rilevati da Dialogica con sensori computer vision a scaffale). Assurdo. Sicuramente, ma soprattutto antieconomico per tutto il sistema. Da queste inefficienze si genera un circolo infame: poche rotazioni, più richieste ai fornitori (anche quelli che ruotano bene). Del resto un pezzo al mese non copre nemmeno i costi di movimentazione e stoccaggio (non compensati dai ricchi listing fees).
Dobbiamo andare a fondo dei problemi, capire il vero comportamento dello shopper, entrare nel singolo punto vendita se vogliamo davvero migliorare le performance dei prodotti. Dobbiamo (tutti, retailer e produttori) inventare un nuovo paradigma di servizio al consumatore. Quando studiavo in USA (tanti anni fa) mi hanno insegnato una cosa: ad una azienda puoi togliere tutto tranne i clienti, perché senza i clienti fallisce. Vale per retailer e industria. Capito?