Promozioni: il gioco vale la candela?

L’eccesso nell’utilizzo della leva promozionale favorisce la migrazione degli shoppers da un prodotto all’altro, aumentando l’infedeltà alla marca, e la ricerca del puro bargain (l’affare).

Le promozioni sono strumenti da sempre presenti, attività del tutto tattiche, di breve periodo, necessarie per dare slancio alle quote di mercato, contrastare la concorrenza, favorire il pieno sfruttamento della capacità produttiva (con una possibile riduzione dei costi fissi per unità prodotta), far provare i prodotti (sampling) ai consumatori o magari semplicemente per sopravvivere.

Tutto lecito, utile, necessario. Ma… La promozione di prezzo, lo sconto, ha il difetto di deprimere i margini del produttore e del retailer.

Per esemplificare quanto fin qui affermato, vi racconteremo, in questo e nei prossimi post, dei casi estratti da Dianalytics, il nostro database con più di 13 milioni di shopper profilati, che hanno interessato alcuni comparti del settore alimentare.

Oggi ci dedichiamo al settore del food confezionato. Viene monitorato l’andamento di una categoria su un panel di ipermercati in un periodo che abbraccia 6 mesi. Lo studio è motivato dalle condizioni già “critiche” della categoria: mercato frammentato (il 30% delle referenze genera il 70% dei volumi), leva promozionale abusata, assortimento che si è stratificato nel tempo, quindi eccessivamente ampio e dispersivo.

Primo elemento di criticità: la correlazione fra l’andamento del traffico (nr di shoppers che entrano in corsia e arrivano davanti alla categoria) e quello delle vendite è bassa. Il sell out è invece influenzato dalle promozioni.

La domanda è: quanto rende effettivamente l’utilizzo della promozione? Per rispondere analizziamo due prodotti (stesso brand) che si collocano fra i “best performer” e vediamo come le promo impattano non solo in termini di vendite, ma anche di posizionamento.

Nel grafico, sotto riportato, avete il dettaglio delle attività promozionali: il prodotto A è rappresentato dal cerchio blu, e il prodotto B dal cerchio giallo. Le promo si avvicendano in maniera quasi continuativa.

Il saldo alla fine è positivo, ma con un ROI molto risicato: 1,93 per il prodotto A e 2,02 per il prodotto B.

Non solo, il profilo dell’acquirente rimane sempre il medesimo per entrambi i prodotti (maschi adulti e giovani donne). Questo significa che c’è una continua trasmigrazione di shoppers dall’uno all’altro, a seconda dell’attività promozionale.

Anche il posizionamento strategico dei prodotti (il ruolo che rivestono all’interno dell’assortimento a seconda del loro livello di ricercatezza) cambia in funzione delle promo: il prodotto A è tendenzialmente meglio posizionato nella mente dell’acquirente rispetto al prodotto B, al netto della spinta promozionale. Ma quando scatta la promo di B, quest’ultimo risulta più ricercato, e il positioning di A ne risente negativamente.

Come vedete, un investimento che sposta shopper da un prodotto all’altro, sbiadisce l’immagine del brand senza un ritorno soddisfacente. Magari nel breve periodo può funzionare, ma nel lungo termine a che cosa porta?

Come convertire gli shoppers potenziali in attuali?

Abbiamo visto che potenzialmente un qualsiasi shopper che entra in corsia, sosta di fronte allo scaffale in cui è collocato il mio prodotto, e soprattutto presta attenzione ad esso, può diventare un mio cliente effettivo.

Lo spazio di azione che il marketing ha a disposizione per colmare il gap che sussiste fra attenzione ed acquisto è veramente esiguo (per un approfondimento sul tema vi rimandiamo all’articolo dedicato ai tempi di attenzione). Certo, esiste sempre l’arma della promozione. Ma non sempre questa sortisce gli effetti sperati, anzi il tutto molto spesso si esaurisce in una guerra di prezzo che erode i margini e sbiadisce l’immagine della marca.

La sfida oggi è trovare soluzioni alternative alla promozione di prezzo nel punto di vendita. Tutto comunica (G. Batheson diceva che non si può non comunicare), e quale occasione migliore di intercettare i clienti se non quando sono impegnati a decidere che cosa acquistare?

Un caso. Protagonista è un brand che gode di una buona equity (è difatti attivamente ricercato dallo shopper) e che ha un posizionamento di nicchia (prezzo medio-alto, collocamento nel segmento “Premium”). Lo teniamo in osservazione per un periodo di 9 settimane in un panel di ipermercati.

Questa è la situazione, al momento della nostra analisi. Le vendite del brand in oggetto (Brand A) sono effettivamente basse, ma molto correlate con l’andamento nel periodo del numero di shoppers potenziali. Il brand è attivamente ricercato dal cliente. Anche il leader di categoria (Brand B) è molto ricercato. Ciò evidenzia che la differenza fra i due prodotti sta nella performance di vendita, mentre in termini di «ricercatezza» il differenziale è molto esile.

Ma ora ritorniamo al nostro obiettivo di partenza: che cosa fare per aumentare il sell out del brand A?

In alcuni punti vendita del nostro panel di test viene sperimentata una attività di comunicazione per un periodo di 5 settimane. Qui i risultati:

 

La linea blu rappresenta il numero degli shoppers potenziali (coloro che hanno osservato il brand A); la linea rossa il numero degli acquirenti effettivi. I primi conoscono un aumento del 5%; i secondi addirittura del 60%!! E il sell out cresce del 57%!

Tutto questo viene ottenuto senza la “spinta” di alcun taglio prezzo e con una comunicazione molto semplice ma che raggiunge perfettamente quello che si propone: fare da “recall” di un brand già molto ben posizionato nella mente del consumatore. Questi, stimolato al momento e nel luogo giusto, procede di fatto a più acquisti. Una buona lezione per il marketing.