Promo si, promo no. Questo è il dilemma.

Rispondiamo alla richiesta di un lettore con un caso reale: cerchiamo di capire quanto una promo aiuti lo sviluppo di un prodotto. Abbiamo estratto da Dianalytics, il nostro database di dati sullo shopper e i suoi acquisti che ormai conta più di 18 milioni di casi, un prodotto che abbiamo seguito per più di un anno. Un notissimo brand nell’alimentare confezionato.

In sette mesi sono state fatte cinque attività promozionali, ciascuna con un taglio prezzo del 25 %.  Il 25 % degli shopper potenziali, ovvero coloro che guardano il prodotto, si è concentrato nei 5 periodi promo. Il 35 % degli atti di “touch” (ovvero prodotto toccato ma non comprato) sono stati fatti nelle settimane di promo. Tutto ciò ha prodotto il 55 % del totale vendite del periodo.

Se consideriamo i valori a baseline, ovvero depurati degli uplift dovuti al taglio prezzo, notiamo che il numero di shopper allo scaffale e la percentuale di prodotto toccato restano uguali; ovviamente, la percentuale di venduto in promo scende dal 55 al 23 % (esatto: su 200 giorni monitorati, 47 erano promozionali, quindi il 23,5 % del totale).

Prendiamo il totale sell-out del periodo: gli shopper crescono del 3 % durante le promo, il prodotto toccato (ma, ricordiamolo, non comprato), del 35 %, le vendite del 250 %.

Quindi: se il prodotto non fosse stato promozionato avrebbe venduto, in termini reali, il 28 % in meno. Durante le promo l’interesse degli shopper cresce in modo marginale (la percentuale di prodotto “touched” passa dal 34 %, non promo, al 37 %, promo). Il numero di shopper resta invariato. La percentuale di vendite perse, ovvero il numero di prodotti toccati che non si traducono in un acquisto, si riduce di 20 punti.

In pratica, non cresce il numero di shopper né il loro interesse per le promo: cresce ovviamente la convertion spinta dal minor prezzo: tutto ciò aumenta l’equity della marca? Lo shopper compra la marca o sta comprando un prezzo? Una analisi Gain & Loss fra prodotti concorrenti, per capire quant’è il livello di cannibalizzazione sarà trattata in un prossimo post.

Il dato di sell-out spiega l’effetto, non le cause (e può generare confusione)

La scorsa settimana eravamo in riunione con un noto retailer per analizzare l’efficacia assortimentale ed espositiva. Il gruppo di lavoro del retailer valuta i risultati solo in base all’aumento del sell-out. Più si vende, più una soluzione è efficace.

Peccato che non sia così semplice: prendiamo un caso analizzato con i nostri sensori nei punti vendita:

Stiamo analizzando una categoria food “tipica”, un classico nel consumo degli italiani. Abbiamo testato tre diversi planogrammi.

Il sell-out nel terzo plano cresce del 12 % rispetto al secondo. Bene, grande successo. Peccato che la pressione promozionale passi, nel segmento principale, dal 55 al 61 %. La crescita dipende dagli sconti che oscurano completamente il contributo (eventuale) del nuovo display? Come leggere correttamente i risultati?

Consideriamo le variabili chiave: il traffico del PV cala, così come quello a scaffale. L’attrattività dello scaffale diminuisce di 30 punti rispetto al planogramma 2 e di 6 rispetto al plano 1. Quindi, primo risultato: meno gente in corsia e meno attrattività per il plano 3.

Analogamente (guarda caso…) cala del 32 % anche la rilevanza che lo scaffale ha per gli shopper.

Il sell-out per viewer (ovvero per shopper che guarda lo scaffale) cala del 14 % rispetto al plano 2. Meno gente a scaffale e meno attrattività, con dato di vendita a baseline, quindi depurato dalle promo, si traduce in calo effettivo delle vendite della categoria.

Quindi il plano 3 è meno efficace del plano 2, anche se apparentemente (e superficialmente) sembrava il contrario.

Interpretare il sesso e l’età con i sistemi automatici di detection

Si parla di recente di face recognition, ovvero di sistemi automatici che riconoscono le persone dalle caratteristiche somatiche del viso. Queste apparecchiature sono (o stanno per essere) installate in aeroporti, dogane, essenzialmente per fini di sicurezza. Dato che non più tardi di ieri in riunione da un noto retailer mi sono state chieste delucidazioni sul funzionamento dei sistemi, pubblico il post che spero possa essere utile a chiarire qualche dubbio su una tecnologia per molti nuova: noi di Dialogica  usiamo la tecnologia di face detection dal 2008.

La cosa fondamentale (anche per le implicazioni legali) da chiarire per fugare la confusione che regna, anche grazie a molti operatori che, utilizzando software di varia provenienza, senza la dovuta esperienza e le verifiche legali (ottenendo cioè il benestare del Garante della Privacy), si propongono al mercato, è la differenza (fondamentale) fra face recognition e face detection.

Le imprese serie e professionali, che usano sistemi automatici per analisi di marketing non parlano mai di face recognition, ma solo di face detection. I sistemi di face detection non riconoscono ma stimano in modo anonimo età e sesso. I dati, per essere compliant con la legge, devono essere trattati non solo in modo anonimo, ma devono seguire un processo di raccolta e trattamento assolutamente rigoroso e rispettoso di quanto stabilito dal GDPR (legge europea sul trattamento dei dati personali).

Del resto, come potete vedere dall’immagine, tratta da una ricerca fatta dall’università di Regensburg in Germania, che ha ricostruito il viso “medio” di uomini e donne, a volte stabilire il sesso non è così semplice o immediato. Quindi, i sistemi commerciali di face detection sbagliano (i migliori poco); per fortuna! Privacy in salvo!

In sintesi, se volete utilizzare i sistemi di face detection, diffidate di chi non ha esperienza (tangibile e documentabile), di chi non ha fatto tutti i passaggi per ottenere la totale e dimostrabile approvazione dell’autorità Garante della Privacy (l’azienda rischia una multa molto pesante). Un piccolo consiglio: chiunque vi parli di face recognition non è un professionista, quindi diffidate.

Promozione, respirazione bocca a bocca che non rianima un prodotto

Un altro caso nell’alimentare: un’azienda ben nota attacca un competitor con un nuovo prodotto, leader di mercato e anch’esso ben noto.

Nei primi mesi, anche grazie a massicce esposizioni fuori banco, lo sfidante registra un buon sell-out. Dopo cinque mesi dal lancio parte l’iniezione di promozione. Brutto segnale di per sé: un prodotto appena lanciato che si attacca alla flebo dei tagli prezzi non dimostra di godere di buona salute. Andiamo a vedere i fatti (il riassunto è nella tabella in fondo):

Prima di iniziare le promo lo sfidante vendeva circa un terzo dei pezzi del leader. Evidenziava un buon interesse, dimostrato dalla quantità di prodotto toccato: rovescio della medaglia: l’interesse non si traduce in acquisto (pessimo segnale nel medio lungo periodo). Le vendite perse rappresentano il 47 % del totale, contro il 31 % del leader.

Quindi, fiato alle promo, con quali risultati? L’interesse aumenta di circa il 10 % (aumentano i prodotti toccati), le vendite crescono del 70 %, cala la percentuale di vendite perse.

Nulla che impensierisca il leader i cui risultati sono decisamente superiori, senza promo, dello sfidante in taglio prezzo. Dopo la promo lo sfidante torna ai volumi (e alle vendite perse) del periodo ante cut price.

A distanza di un anno lo sfidante è a cuccia, fa quello che può, e il leader non ha subito il minimo contraccolpo. Potenza della marca. Poca lungimiranza dello sfidante: ha testato il prodotto prima di lanciarlo con la giusta metodologia?

Se siete interessati possiamo inviarvi un approfondimento scrivendo a matteo.testori@dialogica.it.

Confronto fra il leader, senza promo, e lo sfidante