Gli stylist hanno ragione? Il confronto fra la vetrina di un retailer e quella di un brand.

Il caso è stato scelto perché emblematico di un fenomeno: pur essendo necessaria una “qualità” espositiva adeguata all’immagine della marca e in sintonia con essa, non è utile eccedere in compiacimenti estetici. Una vetrina, oltre a comunicare i valori e l’immagine di marca, ha lo scopo di attrarre i passanti, invitarli ad entrare nel negozio e, possibilmente, acquistare.

Nel caso della vetrina di un retailer, da noi monitorata, il tempo medio di attenzione dei passanti risulta pari a circa un secondo. Per la marca tale valore sale a 1,83 secondi. Maggiore attenzione che però non si traduce in vendite. Una prima vetrina (A), di un noto brand, molto ricca ed elaborata, con video ma con scarsa visibilità dei prodotti, ha fatto registrare un Attraction Index (percentuale di coloro che hanno guardato, a prescindere dalla durata, rispetto a coloro che sono passati) del 26 %. Una seconda vetrina (B) di un brand altrettanto noto, per certi versi essenziale (grande logo e esposizione dei prodotti) ha avuto un Attraction del 76 %. Il grafico mostra il numero di uomini e donne che hanno osservato le vetrine.

I due target non si discostano molto fra di loro numericamente. La vetrina A risulta maggiormente osservata dalle donne (linea rossa). Risulta comunque molto evidente l’aumento progressivo di viewers, ovvero passanti che osservano l’esposizione, di fronte alla vetrina B.

Il caso offre spunti di riflessione a tutti i retail manager, stylist, responsabili della comunicazione: evitare di cedere a compiacenti (e costose!) divagazioni estetiche per concentrarsi sulla reale efficacia. Comunicazione più concreta, semplice, diretta.

La vetrina è un media potente capace di attrarre e, forse, coinvolgere, con un vantaggio: essere lì dove si decide, in buona parte, l’acquisto. Quindi un potenziale straordinario che non può e non deve essere sprecato.

Un vecchio manuale di merchandising di Coca-Cola recitava: “a good merchandising: the last persuader. A bad merchandising: the first dissuader”. Le analisi di Shopper behaviour possono oggi dare un riscontro oggettivo, scientifico, a tale affermazione.

Agiamo nello stesso modo online e offline?

Ovvero, è possibile seguire dei cluster di shopper nel loro processo di acquisto nei negozi e nella loro navigazione online? Perché farlo?

Come sempre partiamo dalla pratica. Siamo nel mondo del largo consumo e consideriamo una marca molto nota: perché solo lo 0,74 % degli shopper si avvicina e la tocca? Perché perdiamo due terzi degli shopper potenziali, cioè coloro che hanno toccato il prodotto (ma non lo hanno acquistato)?

Il 46 % di coloro che toccano il prodotto (quindi i più potenziali) sono maschi adulti. Cosa li fa desistere?

Solo il 16 % degli acquirenti effettivi è un maschio adulto. Cosa genera questo crollo? Come possiamo intervenire?

Dopo avere analizzato la price elasticity, l’effetto flusso davanti allo scaffale, l’incidenza delle promo, del sampling con le hostess (ma di queste cose parleremo un’altra volta), abbiamo simulato diversi scenari utilizzando il sistema di cognitive machine learning di Rulex inc. Questi i risultati.

Se il prezzo calasse del 20 % i maschi adulti aumenterebbero le interazioni positive (cioè gli acquisti) del 10 %. Ritorno modesto, considerato l’investimento.

Con l’ausilio dei dati di ShinyStat, da decenni player dei digital analytics, abbiamo seguito allora il comportamento online dei maschi adulti acquirenti della tipologia di prodotto in oggetto: nel 39 % dei casi si recano su siti di ricette, nel 73 % confrontano i prezzi on line. L’analisi delle serie storiche evidenzia una correlazione elevata fra la navigazione e gli acquisti degli shopper maschi adulti. In particolar modo nei siti “ecologici”.  Bene, l’intelligenza artificiale ci dice che se la presenza di maschi adulti nei siti ecologici aumentasse del 20 % gli acquisti aumenterebbero del 30 %. Un affare molto più redditizio del semplice taglio prezzo!

Una provocazione? Mah…se consideriamo l’erosione continua dei margini e della brand equity a causa delle promozioni, forse un pensierino…

Esselunga: che splendido esempio!

Esselunga, bilancio 2016: ricavi + 3,1 % (superati i 7,5 miliardi) nonostante un calo medio dei prezzi dell’ 1,1 %. Clienti + 4,4 %. Margine operativo lordo + 5,6 % ovvero l’ 8,7 % del fatturato, un record nella Grande Distribuzione, non solo italiana. Assunzioni + 811 unità, di cui 93 % con contratto a tempo indeterminato.

Quando, tanti anni fa, studiavo alle Harvard business school, un prof (bravissimo!! Gary Loveman – a proposito, leggete il suo articolo “Putting the Service-Profit Chain to work”) diceva che per valutare una azienda, alla fine, bisogna vedere se cresce la base clienti, se assume nuove persone e se fa utili.

Come Esselunga, caso da manuale, specialmente in un mercato “turbolento”.

Riprendiamo la solita vecchia domanda: ma è così difficile mettere il latte (e la Nutella…) vicino ai biscotti? Traduzione: perché non riusciamo a strutturare l’offerta in funzione dello shopper?

Tempo di attenzione: il falò del budget di marketing in 4 secondi

Lo scopo del marketing e della comunicazione è quello di portare il cliente al negozio dove avviene, in buona parte, la decisione d’acquisto. Gli shopper, noi stessi, siamo ampiamente influenzati da tutto ciò che esperiamo nel punto di vendita: la gradevolezza dell’ambiente, l’arredamento, i colori, la gentilezza e competenza del personale…

Mediamente, uno shopper sosta davanti allo scaffale per 15 secondi e dedica 4 secondi all’osservazione dei prodotti. In un tempo brevissimo quindi si consuma la decisione d’acquisto.

Il punto di vendita è un vero e potente media. Oggi, l’importanza e la rilevanza della marca è in calo, accediamo a centinaia di canali televisivi, radiofonici, siti, newsletter, blog, social networks. Nel passato era invece abbastanza comune scegliere un prodotto, una marca, e restarvi fedele per molti anni, a volte per sempre. Non vogliamo affermare che le tribù che si aggregano e riconoscono attorno ad un brand, pensiamo ai fan di Harley Davidson, Apple, Nutella, Coca-Cola, siano sparite. Anzi. E’ però vero che al di là di alcuni, pochi eletti, la competizione si svolge in modo spietato specialmente nel negozio (reale e virtuale) dove effettivamente si decide, influenzati dalla shopping experience, dal luogo, dalle promozioni, dalla comunicazione, dal contesto.

Non solo il cosa si compra ma anche come si compra. Lo shopping è un fenomeno sociale e, come ben sappiamo, i nostri comportamenti sono assai influenzati dal contesto. Con chi stiamo facendo shopping? Siamo soli? Stiamo facendo la spesa al supermercato con nostra moglie? Stiamo andando con un amico a comprare un regalo? Per chi lo stiamo facendo? Per noi stessi, per un amico, per nostro figlio, per la moglie?

Il consumatore sul piede di guerra

Una settimana fa abbiamo partecipato al seminario di Eumetra Monterosa. Titolo: Il consumatore al potere? Tema della massima attualità, che è stato trattato, basandosi su solidissimi dati di ricerca, in modo eccellente e provocatorio quanto basta.

Sono emersi molti temi fra cui la nuova consapevolezza del ruolo del consumatore, non più succube ma “dominus” del rapporto con le imprese, le marche, la distribuzione, la nuova centralità della donna, il ruolo della tecnologia.

Purtroppo le marche sembrano non agire di conseguenza: riporto un pezzo di un libro, “Ecologia della marca” (potete guardare la preview qui), scritto nel 2009 assieme a Fabrizio Fornezza, oggi partner di Eumetra: “La marca rischia di abiurare il suo ruolo; la relazionalità con il cliente rischia di essere seriamente compromessa dal ricorso massiccio a promozioni, offerte, tagli prezzo. Il valore, che non è uguale al prezzo, si appiattisce sul prezzo al punto tale da forzare il cliente ad una migrazione, ad un picking di offerte, dimenticando il legame con la sua marca. Una marca che diventa una “belle de jour” offerta a poco prezzo, usata e dimenticata, in cui la progettualità, la relazione duratura, la fedeltà diventano una chimera”.

Le marche hanno ancora moltissimo da dire, hanno eccellenti opportunità; anche i retailer, che emergono dalla ricerca Eumetra come uno dei settori più soddisfacenti per gli italiani. A proposito di retailer: c’è molto da migliorare senza soccombere travolti dai tagli prezzi (vedi il testo del libro).

Il consumatore/shopper è più evoluto di come ce lo figuriamo. Vuole il giusto prodotto al giusto prezzo, vuole qualità certificata, servizio, supporto e il retailer non può sottrarsi al suo ruolo di ente che seleziona e certifica per conto dei consumatori i prodotti da offrire sugli scaffali.

Tempo fa abbiamo incontrato un noto retailer, proprio dopo una trasmissione di Report che riportava l’ennesima contraffazione alimentare: l’ammissione di responsabilità, a denti stretti, è stata fatta. Il retailer ammetteva, con non poco sgomento e rabbia, di avere abbassato la guardia, di non avere più come un tempo il controllo della filiera dei fornitori. Un altro effetto pernicioso della “brand choice overload” di cui parleremo in un altro post.

Tutti connessi? E il mondo reale?

E’ un bel interrogativo quello che vi proponiamo oggi: è una domanda impegnativa e di ampissimo respiro! Per questo vi proporremo il nostro punto di vista limitatamente a ciò che è di nostra pertinenza, ovvero il mondo del marketing, e in particolare quello delle ricerche shopper, di cui ci occupiamo direttamente.

Innanzitutto alcuni dati: Facebook ha raggiunto i 28 milioni di utenti mese in Italia, in pratica il 46,6 % della popolazione. Il tempo speso sui social media è di due ore, leggermente in calo rispetto a due anni fa (2,5 ore), ma è comunque significativo. Dati impressionanti che sicuramente fanno riflettere.

Un paradosso: si rincorre internet, non se ne può più di parlare di millennials  e si perde d’occhio colui che mantiene ogni azienda: lo shopper, quel signore/signora che ogni giorno allunga la mano e mette nel carrello proprio quel prodotto.

Pochissimo si sa del “gesto” finale, del momento in cui davanti al prodotto si compie la scelta. Ed è un male, dato che dal gesto dipendono non solo la quota di mercato ma soprattutto la sopravvivenza della marca/azienda nel lungo periodo. La mano è mossa dal prezzo? Dalla Brand awareness? Dalla attrattività del prodotto? Dalla rilevanza?

Lo scopo del marketing e della comunicazione è quello di portare il cliente al negozio, e, ormai, la decisione d’acquisto avviene per lo più nel negozio (per approfondire il tema vi rimando al mio libro “Shopper Marketing. Dall’intenzione all’acquisto”).

Gli esperti del settore possono portare un cliente al negozio, ma è il negozio stesso, alla fine, che fa sì che un atto potenziale si trasformi in un fatto: dalla intenzione all’acquisto e da questo, magari, alla fedeltà.

A partire dal 2009 abbiamo misurato più di 1,1 miliardi di consumatori e shopper: più di 76 milioni in stazioni, aeroporti, 12 milioni di shopper (acquirenti potenziali ed effettivi, comunque tutti esposti ai prodotti davanti a scaffali e fuori banco) in Iper, Super, negozi tradizionali, luxury, automotive, 10 milioni di italiani che hanno partecipato ad eventi in piazze, fiere, centri commerciali….

Tantissimo materiale dal “mondo reale” ovvero dall’ “oceano blu” a disposizione (ancora…per quanto?) di ogni azienda.

Perché un Blog sul consumer e shopper marketing?

Perché molti studenti del corso al Master in marketing dell’Università Cattolica di Milano, dove insegno dal 2005, mi hanno chiesto di creare un ambiente in cui ripescare concetti, modelli, esempi dopo aver concluso il Master. Passati alcuni anni e presi dal lavoro ciò che si è imparato all’Università diventa evanescente: come si calcola un GRP o l’elasticità di prezzo? Che cos’è la correlazione di Pearson e a cosa serve?

Dati e analytics: l’oro nero del ventunesimo secolo. Certo, ma big data non è sinonimo di good data. I professionisti del marketing combattono con tonnellate di dati da fonti diverse, disomogenee, spesso poco conciliabili: nella maggior parte dei casi il problema non è l’oro nero ma è l’estrazione del valore (ovvero dei significati che aiutino a prendere decisioni adeguate e applicabili). I miei (ex) studenti mi dicono di dover far fronte ad analisi sempre più complicate (i data scientist del resto sono molto richiesti) sentendosi spesso in un labirinto.

Cercheremo di semplificare: nei nostri post partiremo da casi reali, usando nuove tecnologie per capire i consumatori, gli shopper, i loro comportamenti, i loro acquisti off e on line. Poca teoria e molta vita di tutti i giorni: vedremo (pochi) dati, alcuni analytics, scopriremo come estrarre gli “insight”.

Nella teoria e nella letteratura di marketing troviamo un vero e proprio buco nero che è stato raramente esplorato: l’ultimo secondo, ovvero il momento in cui un consumatore si trova davanti a un prodotto per acquistarlo. Cosa succede? Cosa lo spinge all’acquisto? Che relazione esiste fra gli stimoli (fra cui l’advertising, ma non solo) e la decisione d’acquisto? Cosa determina la conversion? Sarà il focus dei nostri interventi: semplicità e pragmatismo: ovvero cosa devo fare per far comprare il mio prodotto?

Per iniziare e per seguire il suggerimento degli studenti potete scaricare un glossario, un “bignami” con una sintesi di concetti e topiche di marketing, tanto per rinfrescare la memoria fra una riunione e l’altra.

A presto,

Matteo

Una preview dei prossimi argomenti:

Quanti shopper acquistano effettivamente il mio prodotto?

Tempo di attenzione: il falò del budget di marketing in 4 secondi.

Come convertire gli shoppers potenziali in attuali?

Effetto vetrina e brand awareness: quanto impatta il Digital signage?

Il Digital out of home: luci e ombre

Il Digital out of home, ovvero tutti i video collegati in rete che vediamo nelle stazioni, negli aeroporti, per la strada, nei negozi, sono un media relativamente nuovo. Gli schermi sono utilizzati, in prevalenza, per trasmettere informazioni o advertising.

Come tutti i media necessitano di un sistema affidabile, robusto, scientificamente solido per la misurazione della loro efficacia: la creazione di un network richiede investimenti importanti in tecnologia, connessioni, hardware, software ed è quindi necessario pianificare con estrema cautela il network e misurare con attenzione i ritorni.

Negli anni, attraverso i nostri sistemi di face detection, abbiamo misurato più di un miliardo di consumatori esposti a diversi network di Digital out of Home. Abbiamo quindi acquisito una solida esperienza che ci ha fatto capire ciò che funziona, cosa è necessario fare, gli errori da evitare.

Una prima considerazione riguarda l’approccio al problema: solitamente, in fase iniziale, ci si occupa prevalentemente degli aspetti tecnici e tecnologici: quanti schermi? Dove? Come connetterli in rete? Con quali costi? Quale software per la gestione dei contenuti? Aspetti sicuramente importanti ma non guidati da una logica di marketing, che dovrebbe prevedere in prima istanza, quindi prima del “che cosa fare” una analisi sul cliente. Chi è? Cosa vuole? Come utilizzerà il mezzo? Ne avrà un beneficio? Se si quale?

Facciamo subito qualche esempio:

  1. Catena di Ipermercati (Italia): video installati in prossimità delle avancasse. Perché? (nostra domanda). Risposta: è la zona più comoda… Risultato: dopo due anni sono stati disinstallati per manifesta inefficacia. Soldi sprecati…
  2. Stazione (Estero): Video installati in un corridoio di accesso ai treni. Teoricamente la posizione è interessante…peccato che i video siano orientati in modo distonico rispetto al flusso dei passeggeri. Risultato: attrattività bassissima. Di nuovo soldi sprecati…

Nel 2014 si è svolta a Stoccolma la prima conferenza mondiale sui Video analytics (http://www.springer.com/us/book/9783319128108). Chi di voi avrà voglia di visitare il sito Springer (che ha pubblicato gli atti del congresso) noterà che, tranne in un solo caso, tutti gli argomenti erano strettamente tecnici. Un solo intervento di marketing! Il Digital out of home è territorio di ingegneri e tecnici. Benissimo, sono necessari. C’è però una contraddizione. La maggior parte dei network vivono se raccolgono e trasmettono pubblicità. Quindi marketing. Non trovate che sia un paradosso? Chi genera valore (il marketing) non è l’attore principale del processo. Strano, non è vero? Ma questa è una storia vecchia…

Seguiteci nelle prossime puntate:

Il processo corretto di sviluppo di un network di Digital out of Home

Come misurare le audience

Come utilizzare i video nei punti vendita in modo efficace

Misurare, pianificare e controllare gli eventi e le attività di marketing non convenzionale

Abbiamo misurato con i sistemi di video analytics (se volete approfondire, leggete l’articolo “Quanti shoppers acquistano il mio prodotto?”), quindi in modo oggettivo e neutro, più di 10 milioni di partecipanti in 150 eventi, 28 città, 12 mercati, 6 canali. Piazze, centri commerciali, fiere, concessionarie auto. Per ogni evento possediamo i contatti lordi, le persone che hanno interagito segmentate per genere e età, il tempo di permanenza e di attenzione; non solo, calcoliamo l’attrattività dell’evento, l’interesse, l’appeal, l’engagement.

Usiamo i dati per:

Analizzare le piazze più potenziali prima di pianificare l’evento.

Individuare la concentrazione del target di interesse per piazza/canale/mercato.

Calcolare l’attrattività di un evento per piazza/canale/mercato.

Misurare il ritorno sull’investimento, concentrando il budget nelle aree/canali/piazza più potenziali.

Misurare i risultati di comunicazione (GRP, costi contatto…) da confrontare con altri media.

Verificare a consuntivo i risultati, il ROI e confrontarli con il budget.

In pratica, si interroga un database e si estraggono i dati e i KPIs per ogni singolo evento; questi sono confrontati in automatico con un dato di benchmark.

Inoltre, calcolando i GRP (per chi non ricorda la formula rimandiamo al nostro glossario) è possibile quantificare l’efficacia dell’evento e confrontarlo con altri media.

Ma scendiamo nella pratica: devo pianificare un tour e ho diverse alternative. Ho un target molto specifico: millenial maschi. Quali sono le piazze più potenziali?

Analizziamo l’attrattività (cioè quanto una struttura cattura lo sguardo dei passanti) in alcuni centri:

Catania e Bari sono le città dove, storicamente, gli eventi sul target millenial maschi hanno prodotto i migliori risultati.

Se consideriamo ora il costo contatto per alcuni centri notiamo che Catania resta ancora sul podio, seguita da Torino, Genova,  Napoli.

Quindi, più efficacia (ci si concentra dove si ottengono i maggiori contatti/risultati) e efficienza (ci si concentra dove il ritorno sull’investimento è maggiore). In pratica,  budget allocato meglio e più ritorni sull’investimento.

Effetto vetrina e brand awareness: quanto impatta il Digital signage?

Nel nostro lavoro, siamo spesso chiamati a valutare le performance di un negozio, sotto diversi aspetti: esposizione, scelta dell’assortimento, personale di vendita, location del negozio, che ci raccontano le sue “potenzialità”. Un fattore chiave nell’attirare i passanti ed indurli ad entrare in esso è sicuramente rappresentato dalle vetrine.

Le vetrine sono un po’ il “biglietto da visita”, devono saper catturare l’attenzione del passante, accendere la sua curiosità e indurlo ad entrare. E’ il primo decisivo step che può trasformare un cliente potenziale in uno effettivo. La vetrina ha quindi un ruolo fondamentale e, per questo, è uno dei primi elementi che andiamo a monitorare.

Il caso che vi proponiamo è interessante perché pone a confronto due vetrine, con Brand molto noti. La prima con una esposizione di prodotto arricchita da un video, la seconda (che espone un brand con awareness assai più elevata) è caratterizzata da una tradizionale ambientazione in cartotecnica. Ecco i dati.

La vetrina con video evidenzia un Attraction index (Percentuale di coloro che hanno guardato, a prescindere dalla durata, rispetto a coloro che sono passati) del 14 %, contro l’11 % di quella senza video, ma con brand più noto. I viewer della vetrina con video sono stati superiori del 15 % rispetto a quelli della vetrina senza video. L’analisi è stata fatta nelle settimane precedenti e successive alla festa della Mamma (Maggio).

La vetrina con video, specialmente nei primi giorni (effetto novità?) produce risultati migliori. All’avvicinarsi della festa della Mamma, cioè quando lo Shopper ricerca un regalo, la situazione si inverte: la vetrina senza video, ma di un prodotto con awareness molto maggiore, supera la vetrina con video. Ciò accade solo nei giorni attorno alla festa, quindi quando dovrebbe scattare l’acquisto per il regalo. Non abbiamo altri elementi per trarre conclusioni, che potrebbero sembrare affrettate. Potrebbe però essere plausibile che il prodotto a più alta awareness (e equity) sia più ricercato nel momento in cui sorge l’intenzione di acquisto.

Ma è poi il maggior appeal generato dalla vetrina animata con video a sostenere più a lungo i risultati migliori!